viaggiatori giardinieri the lost avocado

La villeggiatura in panchina

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In un raccolta di racconti per ragazzi, usciti a scaglioni fra il 1952 e il 1962 per l’Unità e pubblicata da Einaudi nel 1963 col titolo di Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, Italo Calvino ci introduce alla figura di un operaio sofferente e ingenuo, un uomo medio e mite (uno Stoner degli anni ’60, se vogliamo azzardare il confronto), che all’artifizio di una città illusoriamente abbagliante, rutilante di semafori, vetrine, insegne luminose, manifesti, per studiati che fossero a colpire l’attenzione, avanza chimere di loci amoeni e paradisi perduti (senza per questo pensare di scomodare Virgilio e Milton, che qui tiro in causa io). Insomma, ci parla di una manovale di campagna intrappolato nella vita affannosa e industrializzata di una cittadina borghese del dopoguerra (che mai nomina, ma che pare sia Torino) e smarrito, anche se per questo reso un eroe invincibile, dietro al sogno nostalgico di un ritorno alla natura o, meglio, alla ricerca di una natura, seppure questa si manifesterà necessariamente compromessa, nella città. Solo tre anni dopo, Adriano Celentano canterà la sua critica ambientalista ne Il Ragazzo della Via Gluck, raccontandoci di un “Marcovaldo” illuso dalle promesse del boom industriale ed economico, che ha spianato il verde e fabbricato case su case, catrame e cemento.

Dove voglio andare a parare… In uno dei racconti di Marcovaldo, intitolato La villeggiatura in panchina, il protagonista decide di sfuggire al russare e parlare nel sonno di tutta la famiglia e all’invivibilità di un appartamento troppo stretto da viverci in cinque, per cercare sollievo nel verde della città, scegliendo una panchina del parco come giaciglio per la notte. “Là era il fresco e la pace”, pensava. Dalla fine tragicomica della storia, sappiamo che l’inquinamento della città (anche sonoro) e la scomodità della panchina finiranno per infastidire ancora di più l’uomo, ma questo non è il punto. Il punto è che, nonostante quella rintracciata da Marcovaldo in città sia una Natura dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale, egli la brama, non può far altro che andarne alla ricerca, ne sente forte la mancanza e il bisogno.

Mi è venuta in mente la storia di Marcovaldo mentre ero dal vivaio. Negli ultimi tre mesi penso di averci messo piede una ventina di volte: all’inizio, cercando semi e vasetti, poi, riempiendo il carrello di piante sempre più grandi, concimi e attrezzi che pensavo sarebbero tornati utili a un certo punto del lavoro, ma di cui continuo a ignorare l’utilizzo.

Nel frattempo, ho seminato cose che non sono mai nate, altre di cui stanno per fiorire i boccioli o che sono appena appassite dopo un’esplosione di colore fulminosa. Ho anche piantanto 3 ortensie bellissime, un papavero orientale (si sta aprendo in queste ore), aglio ornamentale, scabiosa columbaria, anemoni, gerani e rose; della salvia crystal blue e della lavanda inglese; un esemplare di Digitalis purpurea, di Delphinium bianca e di Penstemon; una dalia temptation e una piccola peonia Sarah Bernhardt che, se non gela prima, dovrebbe darci soddisfazione fra un paio d’anni.

E mentre scavavo un buco nella terra argillosa, tempestandolo di grani e sabbia, prima di calarci dentro il legnetto della peonia, mi è tornato in mente che il seme etimologico della parola “Cultura” è il verbo latino còlere, che significa coltivare. Inteso non solo in senso pratico, ma anche nel senso figurato di “prendersi cura”, delle cose della terra, così come dello spirito – fu Cicerone per primo a introdurre il concetto di cultura animi. E da quella matrice iniziale prendono forma anche altre parole fondamentali del nostro lessico, come: culto e inquilino, cioè colui che abita.

Se dovessimo recuperare il senso originario di “Cultura”, dunque, e ne riconoscessimo come dovuto il valore fattuale, pratico e concretizzante, potremmo dire che è Cultura ciò di cui abbiamo cura, che facciamo crescere e germogliare. E questo prendermi cura di qualcosa che, nell’instabilità del “mondo di fuori”, mi concedeva un senso di compiuto (che fosse marcito o cresciuto), mi ha regalato uno stato di pace e benessere che non avevo messo in conto. Avevo considerato il giardinaggio un modo per sistemare il pezzetto di verde dietro casa. Ma alla fine è stato il giardino a prendersi cura di me.

Il medico cura, il giardino guarisce. Aristotele

La biofilia (termine coniato da Erich Fromm) di Marcovaldo, l’attrazione che la natura esercita sul personaggio e il bisogno che questi ne ha, è la stessa che mi ha portato per caso a interrare un semino qualche mese fa e a trasformarmi poi nella garden keeper del quartiere (ancora molto imbranata), dedicando giornalmente qualche ora al giardino.

E se mi è mancato viaggiare, se CI è mancato viaggiare, è perché il viaggio ci mette in comunicazione con il resto attorno a noi, ci fa vivere il ritmo delle stagioni e la meraviglia di paesaggi nuovi, agevolando quel contatto con la Natura che è fondamentale per la salute e la felicità di ognuno (quello che in psicologia ambientale si direbbe ristorazione o rigenerazione).

Da qui i concetti di healing gardens, restorative gardens, o di terapia orticola, ma anche di forme di viaggio come il forest bathing (di cui parleremo presto), per esempio. E questo ci porta al vero punto della storia. Al fatto che non si possa (più) pensare di vivere bene, felici (lo azzardo) e appagati, senza prendersi cura del “giardino”. Che non si possa più pensare di viaggiare, di esplorare e scoprire, senza partecipare alla cura dei luoghi che ci ospitano. L’ambientalista Derrick Jensen direbbe:

Non è possibile formare una cultura della sostenibilità senza possedere un’anima ecologica.

È vero, l’ho presa un po’ alla larga, ma non avrei voluto approcciare il concetto di sostenibilità, senza partire da Calvino. Vi ho parlato di Marcovaldo, perché quella sua voglia di evasione, di natura, di libertà, di bellezza, è stata ed è la nostra. In questi mesi di “trambusto”, ancor più sentita. E sono partita dalla mia passione per il giardinaggio, per ricordare a me, innanzitutto, che nella cura del bene comune c’è una serenità appagante e una possibilità di futuro. Se vogliamo darcela.

Considerarsi viaggiatori senza essere “giardinieri” non è più immaginabile. Viaggiare in modo sostenibile non è una scelta, ma è una necessità.

E noi proveremo a raccontarvela di più.

Che sia una stagione di frutti da raccogliere, tra le fronde degli ippocastani, dove sono più folte e solo lasciano dardeggiare gialli raggi nell’ombra trasparente di linfa, per citare Calvino.

Buona estate nella Natura.

Sara

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